È un libro pesante. Quasi ottocento pagine. Mezzo chilo, forse. Un lingottone dorato con il titolo Insciallah che campeggia a caratteri verdi a metà copertina. E che, per inciso, significa : come Dio vuole. Il Dio in questione è naturalmente Allah. Ricorda l’ Amen, di radici ebraiche, dei cattolici: così sia. Sia fatta la volontà del Signore.
Ho trovato questa copia in un mercatino dell’usato, tipo cose di altre case, tra libri di ricette, manuali di autoaiuto e gialli Mondadori. Confesso di non sapere molto a proposito di Oriana Fallaci. Più o meno quello che sanno tutti: una giornalista famosa, una donna scomoda. Una che non te lo mandava a dire. Lettera a un bambino mai nato, il titolo – che già da solo racconta una storia – del suo libro più venduto, che non ho letto.
L’ho comprato il lingottone, perché una delle poche certezze che ho è che i libri sopravvivano alle persone, per ricordarci com’erano. Con tutti loro pregi, i loro difetti, la loro solitudine e la loro umanità.
L’Oriana – come la chiamavano alla toscana – era una donna minuta, ma aveva un coraggio da leone. Una che si trovava a proprio agio dove fischiavano le pallottole vaganti. Fanno ziiiiiiiiiiin , spiega. Una che durante l’intervista all’ Imam Khomeini si tolse rabbiosamente il chador definendolo un cencio del medioevo. E pensate che a Khomeini sarebbe bastato alzare un sopracciglio per farla lapidare lì e subito, dato che per quell’intervista la Fallaci aveva dovuto sottoporsi ad un matrimonio – farsa con un musulmano.
Ci vuole coraggio a scrivere un libro come Insciallah e a pubblicarlo, nel 1990. Il coraggio di scrivere ciò che si pensa senza filtri, senza riguardi per nessuno. E sì, perché l’Oriana se la prende con tutti. Provo a fare un elenco, temo non esaustivo: se la prende con la guerra, con il comunismo, con i Marines, con l’Esercito Italiano, con gli Imam, con i Musulmani, con i Palestinesi, con gli Ebrei, con i preti e le suore, con i computer, con la televisione, con i froci (cit.), con i politici italiani, con l’egemonia culturale della sinistra, con la magistratura, con i giornalisti allineati, con i terroristi, con gli ignoranti, con i figli di papà, con Garibaldi, con i filosofi greci eccetera. Senz’altro ho dimenticato qualcuno. Gli unici che si salvano sono: i bambini, le donne maltrattate e gli uomini che hanno ancora dubbi e sentimenti.
Poi uno capisce perché, dopo l’uscita del libro, l’Oriana si sia autoesiliata a Manhattan. Senza scorta, come Salman Rushdie. Forse perché all’epoca non andavano ancora di moda gli scrittori sotto protezione.
Ma veniamo al romanzo, che ho letto tutto d’un fiato perché non si può fare altrimenti. La tentazione di ricorrere a qualche metafora da fascetta è forte: pesante come un macigno; freddo e affilato come un bisturi; crudo come… meglio lasciar perdere. Provo con quello che è: un romanzo di guerra, geopolitica e sentimenti. Un romanzo scritto da una giornalista di cui si possono dire tante cose tranne una: che non sapesse fare il suo mestiere. I fatti sono storia: la missione internazionale cui partecipò anche l’Italia a Beirut, nei primi anni ottanta, durante la guerra civile. La Fallaci ottenne un permesso speciale dall’allora presidente del consiglio Spadolini, e trascorse nel 1983 tre mesi con il contingente italiano, dagli attentati con i camion carichi di esplosivo al quartier generale americano e francese – che causarono quasi trecento morti – al rientro in patria delle forze italiane.
Descrive con precisione quella che fu per i soldati italiani una guerra di nervi nella Beirut divisa dalla Linea Verde: mesi passati a schivare proiettili senza rispondere al fuoco e alle provocazioni. Quella degli italiani era una missione che adesso si chiamerebbe di peace-keeping: cercare di mantenere la pace in una città semidistrutta dove gli scitii Amal e l’esercito governativo – entrambe frammentati in diverse fazioni – si tiravano addosso tutto quello che avevano a disposizione. Per rendere l’idea, gli italiani tra le altre cose dovevano essere pronti a recuperare i piloti americani che per errore fossero caduti col paracadute nella zona sciita, perché altrimenti se li sarebbero mangiati crudi. Badate bene, non vivi: crudi.
Se i fatti sono storia, i personaggi – in linea teorica – sono frutto di fantasia. I soldati italiani parlano tutti i dialetti dello stivale da nord a sud. Uno in particolare, Angelo, annichilito dagli orrori a cui la facoltà di matematica non l’ha preparato, si rifugia nel tentativo di dimostrare come la teoria dell’entropia boltzmaniana – cioè la dimostrazione matematica della tendenza dell’universo ad essere inghiottito dal caos che si alimenta degli stessi sforzi compiuti per evitarlo – sia errata; che esista insomma una “formula della vita”. Angelo naturalmente non riuscirà nel suo intento, e arriverà all’unica conclusione possibile, l’unica che è data agli uomini: Insciallah.
Credo sia un libro imperdibile, oltre che una lectio magistralis di scrittura. E una boccata di ossigeno politicamente scorretto. Non dico di più, solo un’ultima considerazione. Un personaggio del romanzo – il Professore, un ufficiale italiano – scrive una lettera ad una moglie immaginaria e racconta che attorno a lui una piccola Iliade si sta muovendo: una moderna Iliade in trentaduesimo dove con un po’ di umorismo si si ritrovano tutti gli eroi del divino poema. Mi ha fatto pensare. Chissà se già Oriana Fallaci si vedeva come una moderna Cassandra, la sacerdotessa del tempio di Apollo con il potere della preveggenza, ma condannata, dopo aver rifiutato di concedersi al dio, a rimanere per sempre inascoltata. Per le sue idee sull’ Islam, per la teoria dell’ Eurabia, cioè che gli immigrati Musulmani in Europa, con loro alto tasso di natalità , avrebbero ben presto avuto la meglio sugli Europei. Per l’apocalisse che ben presto avrebbe scatenato Bin Laden.
Cassandra perì tra le fiamme che distrussero Troia, come aveva previsto, senza che nessuno le credesse. Oriana Fallaci ha perso la sua battaglia con il cancro. Spero che riposi in pace. E che, al contrario di Cassandra, si sia sbagliata.