Un paesino di pianura

Una storia di fantasia. Ma proprio inventata eh, non cercate riferimenti con la realtà perché non ce ne sono.

 

C’era una volta un paesino di pianura, con una bella campagna verde e ben curata tutt’attorno. Solo il nastro dell’autostrada tagliava l’orizzonte verso nord. Dovete sapere che in questo paesino abitavano persone oneste e tranquille, educate e rispettose delle regole. La gente passeggiava per le strade scambiandosi buongiorno e buonasera; parcheggiava solo negli spazi consentiti e si impegnava nella raccolta differenziata dei rifiuti. Raccoglieva diligentemente la cacca del cane dal marciapiede.

Certo, non erano perfetti, nessuno lo è. Come tanti connazionali, a volte, si prendevano qualche libertà. Tipo costruire la casetta di legno in giardino, trasformare il garage in appartamento per la badante, la cantina in tavernetta e la soffitta in mansarda. Insomma, piccoli abusi edilizi: lo sport nazionale dopo il calcio. Niente di grave, in fondo.

Il Sindaco della grande Città Metropolitana – che aveva giurisdizione sul piccolo paesino di pianura – non la pensava allo stesso modo. Come tutti i suoi predecessori, era più propenso a interpretare queste innocenti iniziative immobiliari non autorizzate alla stregua di reato penale. Quindi, al minimo sentore di abuso in corso, sguinzagliava i suoi Vigili Municipali a fotografare, misurare, sanzionare e, nei casi più gravi, demolire. Tolleranza zero per gli abusivi, questa la linea ufficiale.

Ormai i cittadini del paesino di pianura si erano rassegnati. C’erano delle regole e andavano rispettate, anche in casa propria. E non avrebbero potuto fare in modo diverso, perché una flotta di droni sorvolava regolarmente il territorio per fotografare dall’alto eventuali attività edilizie illecite, che venivano represse sul nascere.

Insomma, nonostante non fosse possibile costruire proprio tutto ciò che si voleva, la vita scorreva serena e ordinata tra le vecchie strade, le case di sasso e gli alberi centenari del paesino di pianura. Almeno fino al giorno in cui, nella campagna circostante, accadde un fatto strano.

Di prima mattina arrivarono automobili e camioncini con targhe forestiere, da cui scesero persone che parlavano lo strano miscuglio di lingue delle etnie vagabonde. Tra gli sguardi incuriositi dei locali iniziarono a misurare, picchettare, recintare. Poi arrivò una ruspa che in quattro e quattrotto spianò una nuova strada. Poi i tecnici della municipalizzata che portarono linee elettriche e acqua potabile. Scese la notte e alla luce delle fotoelettriche, sotto gli sguardi sempre più meravigliati dei cittadini del paesino di pianura, da grossi camion vennero scaricate con le gru case prefabbricate in legno, di ottimo gusto e fattura. Veri e propri villini, colorati a tinte vivaci, con le imposte alle finestre e il tetto di tegole.

“Cosa fanno?”

“Ma non possono, quella è zona agricola!”

“Non si può costruire lì, chi gli ha dato il permesso?”

Queste domande fluttuavano nell’aria, negli sguardi interrogativi, sulle bocche spalancate per lo stupore, senza risposta. Finchè qualcuno non si fece coraggio e chiamò i temutissimi Vigili Municipali.

“Stiamo a vedere. Adesso ridiamo” pensarono tutti.

Crebbe l’agitazione tra gli spettatori, ormai una folla assiepata nei campi e lungo i fossi, comunque a debita distanza dal sito dove fervevano i lavori. I bambini piangevano, le donne discutevano animatamente fra loro, gli uomini a braccia conserte scuotevano il capo .

Finalmente arrivarono i Vigili Municipali, con macchine, lampeggianti, motociclette e stivali neri. Parlottarono per qualche minuto con quello che sembrava il più autoritario dei forestieri – forse il capo – poi se ne andarono. Tutti i presenti si guardarono con aria interrogativa. Poi arrivò un camioncino della tivù locale, scesero due giornalisti armati di telecamera, parlottarono qualche minuto con lo stesso tizio di prima e se ne andarono a loro volta.

I cittadini del paesino di pianura a questo punto non sapevano più cosa pensare, quindi tornarono a casa. Anche perché stava cominciando a piovere.

La mattina dopo il sole tornò a splendere sulla campagna e sui tetti lucidi delle casette colorate. Da qualche comignolo usciva un filo di fumo. Ce n’erano otto, disposte regolarmente lungo i lati di un quadrato delimitato da un’alta recinzione, resa impenetrabile agli sguardi dei curiosi da un telo verde. I camion se n’erano andati, non c’era alcun segno di attività all’esterno. Un cancello sprangato fungeva da accesso all’enclave dei forestieri. I cittadini del piccolo paese di pianura erano sbigottiti, non avevano mai visto niente del genere.

Sul telegiornale della tivù locale nessun accenno a quello che era successo nella notte. Nemmeno sul Gazzettino, a cui non sfuggiva mai nulla. Silenzio assoluto. Qualcuno telefonò ai Vigili Municipali, ma ottenne risposte evasive. Dopo pranzo i cittadini del paese di pianura decisero di prendere l’iniziativa e inviarono una delegazione al nuovo insediamento, per capire cosa stesse succedendo.

Gli uomini percorsero a piedi la strada ghiaiata che le ruspe avevano realizzato il giorno prima, poi esitarono un poco davanti al cancello sprangato, senza sapere cosa fare. Dopo qualche minuto di imbarazzo, un uomo socchiuse il cancello. Doveva essere il rappresentante diplomatico dei forestieri. Aveva la pelle scura, pesanti catene d’oro al collo e bracciali ai polsi. Fu breve e conciso.

“Vaffanculo” disse. Poi sputò per terra e richiuse il cancello.

La delegazione tornò mestamente al paese.

“Adesso che si fa?” disse uno.

“Andiamo a parlare col Sindaco!” risposero gli altri in coro.

“Ci deve ascoltare!”

“Vogliamo delle risposte!”

Partirono senza indugio per la grande Città Metropolitana. Attraversarono a grandi passi la zona ZTL fino al palazzo del Comune. Salirono l’imponente scalone medioevale che non ne rallentò lo slancio, spiegarono con veemenza le loro ragioni e furono fatti accomodare nella grande sala di rappresentanza, in attesa. Il Sindaco, nonostante i suoi molteplici impegni, li avrebbe ricevuti. Dovevano solo pazientare un poco.

Passò un’ora. Passarono due ore. Sotto la volta affrescata del salone e gli sguardi austeri dei notabili nei quadri antichi appesi alle pareti, piano piano, gli animi si calmarono. Mentre qualcuno cominciava a domandarsi cosa fossero venuti a fare, arrivò il Sindaco, accompagnato dal Comandante dei Vigili Municipali in persona e stivali neri, e da un’ Assessora a qualcosa che nessuno capì.

Il Sindaco – che non era stato eletto per caso – ascoltò le ragioni dei suoi cittadini di periferia, senza che il suo largo sorriso si adombrasse un solo istante. Quando ebbero finito sospirò, come sospira solo chi porta sulle spalle il peso gravoso di grandi responsabilità. Poi, con calma e pazienza come si trovasse di fronte a bambini delle elementari, spiegò loro il significato semantico e ontologico delle parole tolleranza, accoglienza, tutela delle minoranze e dei minori. Quando ebbe finito li esortò a tornare senza indugio alle loro occupazioni di bravi e onesti cittadini di periferia.

Fu un bel discorso, qualcuno si commosse. Ci furono abbracci e strette di mano. Poi tutti tornarono alle loro case con la coda tra le gambe, vergognandosi un po’.

La storia potrebbe finire qui, invece no.

Perché da quel giorno, nonostante dei forestieri non si potesse più parlare – e nemmeno si potesse più dire che fossero forestieri –  nel piccolo paesino di pianura tutti pensavano la stessa cosa: le regole non sono uguali per tutti.  

Ci pensavano tutte le mattine mentre andavano al lavoro, passando vicino all’enclave abusiva della minoranza vagabonda che evidentemente era stata presa da una pulsione stanziale. Ci pensavano, con malcelata invidia, quelli che vivevano in case anche più brutte di quelle dei nuovi venuti.  Ci pensavano al bar mentre facevano colazione o all’ufficio postale in fila per pagare le bollette. Era diventata un’ossessione, l’ultimo pensiero prima di addormentarsi: le regole non sono uguali per tutti.

Che è un pensiero pericoloso e destabilizzante. E alla lunga fa incazzare.

I cittadini del piccolo paese di pianura smisero di sorridere e di augurarsi buongiorno e buonasera. Cominciarono a parcheggiare in doppia fila. Nessuno si preoccupò più della raccolta differenziata dei rifiuti. Anzi, col favore delle tenebre qualcuno cominciò a buttare le pile usate nell’umido, il vetro nella carta e la plastica tra gli sfalci e le potature. Smisero di raccogliere la cacca del cane dai marciapiedi, e chi ne pestava una si incazzava ancora di più.

Le regole non sono uguali per tutti. Un pensiero che a poco a poco divenne una convinzione. Una certezza, in grado di aprire una crepa profonda nel senso civico di tutta la comunità. Che diventò sempre più estranea a sé stessa, sempre più indignata e rancorosa. I giovani cominciarono ad andarsene altrove e dei vecchi non si curò più nessuno, perché passavano il tempo a litigare fra loro. Il valore degli immobili crollò, le antiche case di sasso furono chiuse e divennero vuote e silenziose, come le strade ingombre di rifiuti; i cartelli VENDESI cominciarono ad apparire un po’ dovunque.

Ma rimasero lì per mesi, per anni, a scolorirsi sotto il sole.

Il nome del paesino di pianura non ha importanza, questa è una storia di fantasia. Qualcuno lo ha anche cancellato dal cartello stradale: con una bomboletta spray ci ha scritto sopra “Vaffanculo”.

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