Un quadro, un libro.

Henry inviò un sms a Bianconigli, tenendo il manubrio con una mano sola e cercando di andare dritto. Attraversò il parco, superò un varco ZTL contromano rivolgendo un cenno di saluto all’occhio rosso della telecamera e si ritrovò nelle strette stradine del centro. Pedalò schivando qualche raro pedone lungo un paio di sensi unici, finché non sbucò in via Emilia.

L’antica strada romana tagliava in due la città e il suo centro storico, e naturalmente ne aveva condizionato lo sviluppo urbanistico nei secoli, come quello delle altre città e dei paesi che incontrava lungo il percorso tra Rimini e Piacenza. Marco Emilio Lepido, il console romano che l’aveva voluta nel secondo secolo avanti Cristo per fini strettamente pratici – quali spostare rapidamente un esercito e sviluppare il commercio – era stato di fatto un generale oltre che un politico appassionato di ingegneria.

Strade, ponti, acquedotti. Ma soprattutto fogne. Gli antichi Romani avevano il pallino dello smaltimento sotterraneo delle deiezioni e dei canali di scolo. “Nunc locus nobis ad castra!” Arrivavano in un posto di loro gradimento e via: cardo, decumano, tanti bei lotti quadrati. “Qua aedificant spa?” Avessero avuto a disposizione dei Caterpillar parleremmo ancora in latino.

Henry immaginò che a tre metri di storia sotto le ruote della sua bicicletta e i cubetti di porfido che avevano resistito all’asfalto, si trovassero ancora le lastre di pietra squadrata dell’opus lastricatum, consumate dalle ruote dei carri e dagli zoccoli dei cavalli, dalle orde barbariche e dai sandali dei pellegrini, e più sotto ancora un sistema di fognature che finiva chissà dove.

I suoi ricordi andavano indietro trenta, forse quarant’anni; la strada, i portici, i palazzi che stava osservando non erano cambiati da quando scappava di casa e andava in giro con la Graziella di Mancini/madre. Si chiedeva spesso, e negli ultimi tempi con maggiore frequenza, cosa lo trattenesse in quella piccola città di provincia, cosa gli avesse impedito di andarsene, magari da giovane, quando sarebbe stato più semplice. Quella città, che si ostinava a definire la sua città – nonostante non ne possedesse nemmeno un piccolo pezzetto, neanche gravato da ipoteca – esercitava su di lui una sorta di campo gravitazionale. Sembrava che volesse impedirgli di andarsene, mostrandogli solo orizzonti poco attraenti. Verso est e verso ovest, allontanandosi lungo l’asse della Via Emilia, brutti capannoni prefabbricati con insegne luminose sempre più grandi – che sostituivano da un giorno all’altro quelli più vecchi ma altrettanto brutti – ospitavano una lunga teoria di concessionari d’auto, rappresentativa di tutti i marchi in commercio, uno a fianco all’altro, oltre a una miriade di saloni multimarche, gommisti, revisionatori, riparatori di cristalli, autolavaggi. Tutti in franchising, perché gli artigiani erano scomparsi ormai da tempo. Gli alberi si potevano contare sulla punta delle dita di una mano, prigionieri dei guard rail che fiancheggiavano la strada, e davano l’impressione di lottare strenuamente per sopravvivere, sempre in guerra con l’asfalto, con un nuovo palo pubblicitario o un tendone di pvc. Verso nord lo sguardo si perdeva nell’orizzonte piatto e sconfinato della pianura padana e dei suoi miraggi avvolti nella nebbia, interrotto soltanto dai filari di pioppi, dal rilievo degli argini e dalle torri di estrazione del gas metano. Verso sud una fascia precollinare ad alto valore immobiliare – che nelle aerofotogrammetrie scattate ogni sei mesi per prevenire gli abusi edilizi appariva puntinata di piscine turchesi dalle forme più svariate, giardini recintati di un verde artificiale e campi da tennis – anticipava l’Appennino. Le montagne dietro casa, dopo un momento di entusiasmo cementificatore negli anni Settanta, avevano visto migrare i villeggianti estivi verso Madonna di Campiglio, Forte dei Marmi o i più economici Lidi Ferraresi. Qui era rimasta soltanto gente ruvida, un po’ montanara un po’ contadina, che aveva guardato i figli andarsene senza voltarsi e con loro qualsiasi progetto per il futuro. Insomma, qualsiasi direzione sembrava poco invitante per andarsene, ma forse questa era sempre stata una scusa per rimanere.

Il centro storico era il luogo a cui Henry era maggiormente affezionato, con i portici, le piazze e il duomo romanico. Era l’unico luogo che sembrava resistere con una propria identità, nonostante ogni quattro anni un nuovo consiglio comunale , tentasse di impossessarsene. Con piccoli cambiamenti all’apparenza poco significativi: dalla pavimentazione di una strada ai nuovi chioschi del mercato, dall’inserimento di arredo urbano futuristico alla compulsiva rotazione dei sensi unici e della viabilità. Un esercizio di potere di solito mal tollerato dai cittadini, affezionati alle loro abitudini e poco propensi alle novità. Cambiamo volto alla città era il genere di slogan che ciclicamente appariva sugli autobus e sui cartelloni pubblicitari. L’intenzione era quella di partire proprio dal centro storico per questi maquillage urbanistici post elettorali, che solitamente però si concludevano con un nulla di fatto. L’amministrazione comunale sfogava quindi la propria frustrazione rendendone sempre più difficoltoso l’accesso, delocalizzando i parcheggi, complicando l’esistenza dei residenti con regole kafkiane per la raccolta differenziata dei rifiuti, la lettura dei contatori e soprattutto le multe tolleranza zero per divieto di sosta, e rendendo impossibile il commercio per quelle piccole attività che ancora non si erano rassegnate a trasferirsi in un centro commerciale periferico. Questa politica stava dando i suoi frutti e ormai il numero di radical chic, hipster di buona famiglia e avvocati che si sforzavano di vivere e lavorare in centro si stava riducendo sempre più. I notai e i commercialisti, categorie professionali più pratiche e molto meno romantiche, se ne erano già andati da un pezzo verso nuovi studi climatizzati, insonorizzati e facilmente raggiungibili dalle grosse auto dei clienti, poco inclini all’utilizzo dei mezzi pubblici e delle navette al servizio di parcheggi delocalizzati.

Henry osservò i cartelli a colori fluorescenti che ormai erano affissi in gran numero su serrande abbassate e imposte chiuse: vendesi, affittasi o tutte e due le cose. Raramente ce n’era qualcuno con la marca da bollo prescritta. Le quotazioni immobiliari del centro storico stavano crollando e di pari passo aumentavano la delinquenza, le aggressioni, la violenza. Occupandosi di cronaca, se ne era accorto da un pezzo. La linea ufficiale era quella di minimizzare, ma il semplice fatto di non volerlo ammettere non implicava necessariamente che la violenza non esistesse. Per quanto un paio di sere alla settimana un po’ di movida animasse alcune zone, la maggior parte delle strade e delle piazze si svuotavano dopo la chiusura dei negozi, la gente rincasava in fretta, col passo spedito e guardingo degli abitanti delle metropoli. Le uniche attività che rimanevano aperte fino a tardi erano quelle con insegne incomprensibili, tra l’arabo e il cirillico, che sorgevano da un giorno all’altro in locali sfitti e a bassa vocazione commerciale. Una nuova microeconomia stava cambiando il volto della parte più antica della città. C’era una trasformazione in atto, ma Henry era convinto che il centro avrebbe resistito anche a quella.

Davvero non si spiegava il perché della sua radicata ostinazione a vivere in quella città, di cui conosceva tutti i limiti e sulla quale da tempo non si faceva più illusioni, quella città che a volte sembrava avvolgerlo in un abbraccio rassicurante, altre volte soffocarlo in una morsa. No, anche volendo, non sarebbe riuscito a rintracciare un motivo valido per rimanere. Ma neppure la volontà di andarsene. E a forza di rimandare, forse era davvero troppo tardi.

Assorto in questi pensieri arrivò in Vicolo Stretto. Vicolo Stretto era stretto per davvero – una bicicletta e una macchina dovevano prendersi le misure per passare – e finiva bruscamente dopo circa cinquanta metri. Vi si affacciavano le brutte porzioni retrostanti di palazzi che avevano facciate nobili, con portici, cornici e alte finestre. Da Vicolo Stretto probabilmente passava la servitù. Attraverso le entrate secondarie venivano consegnate tutte quelle cose che servivano ai signori per vivere da signori. In fondo al vicolo, prima dell’avvento del gas metano da riscaldamento, si trovava un carbonaio. Proprio in quei locali aveva preso vita l’Osteria dei Filosofi, che con la sua bella targa in ceramica smaltata di Bottega Storica in Via di Estinzione – regalata non senza una certa ironia dall’amministrazione comunale – resisteva da tempo.

Henry appoggiò la bicicletta contro al muro, dimenticando come sempre di chiuderla, rivolse un cenno di saluto a un paio di persone che fumavano fuori, sotto a un ombrellone largo come il vicolo, ed entrò.

“La Congettura di Henry” © 2014 Bianconigli Editore

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