Una splendida giornata

È difficile stare in casa con una giornata così. Difficile spiegare il perché a un bambino di cinque anni, anche con parole semplici. Per gli adulti è più facile: mentre scrivo – e non lo faccio da molti mesi – il numero delle vittime in Italia è salito a 1441. Un numero palindromo, sinistro, terribile. Ci si dimentica immediatamente che fuori c’è il sole e un cielo azzurro quasi primaverile, punteggiato da allegre nuvolette.

Poi il pensiero va a quella statistica inquietante, l’ 80% delle vittime erano persone anziane, come i miei nonni che non ci sono più. Quei nonni che a me – e a tanti della mia generazione che avevano genitori molto impegnati nelle loro faccende – hanno insegnato le regole, la buona educazione, il senso civico, la moderazione, la compassione.

O almeno ci hanno provato, fino allo sfinimento.

Penso ai familiari delle vittime, a quelli che non sono nemmeno riusciti a dare un ultimo saluto ai loro cari. Alle persone che hanno tentato di curarli, di guarirli, e se li sono visti scivolare tra le dita nonostante tutti i loro sforzi e il loro impegno.

Il mainstream, il web, i social, non aiutano a capire cosa sta accadendo. Infermieri distrutti dalla stanchezza, medici che lanciano appelli disperati, farmaci e vaccini risolutivi “ma ci vuole tempo”, il presidente del consiglio in farmacia, gente che canta e balla sui tetti e sui balconi, carcerati in rivolta come topi in gabbia, 4000 persone denunciate per stupidità (sì, finalmente è un reato punibile), gente commossa che canta con le lacrime agli occhi l’inno di Mameli: “siam pronti a morire, l’Italia chiamò”.

Badate bene: nonostante nutra qualche dubbio sul siam pronti a morire, non giudico e non critico. Ognuno è libero di esternare le emozioni come crede meglio, di esorcizzare la paura come può. Lo capisco, anch’io ho i miei problemi in questo senso.

In cosa sperare quindi? Nella scienza, nell’onnipotente – o in tutti e due – perché si trovi il vaccino e il farmaco per guarire chi è malato prima possibile. Nel frattempo, anche se siamo Italiani, cioè parecchio emotivi e con uno spiccato senso del teatro, forse dovremmo fare un piccolo sforzo per tirar fuori quel necessario understatement che fa parte del nostro corredo genetico, che abbiamo tutti, nascosto da qualche parte.

Mi spiego meglio. La traduzione letterale di understatement è “sottostima”, ma preferisco il significato che questo termine aveva per Ernest Hemingway – quella qualità che forse più dell’autore avevano i suoi personaggi – e  cioè “grace under pressure”.

Grazia, compostezza nelle avversità. Compassione, e più importante di tutto, coraggio.

Il coraggio di affrontare le difficoltà e le loro conseguenze, senza urli e strepiti, senza lamentarsi, a testa alta.

Che poi nel nostro caso, o almeno per la maggior parte di noi, si traduce semplicemente nel rispettare le regole, nel prendere consapevolezza che oltre a “noi” ci sono anche gli “altri”.

Un’ultima cosa. Il temine understatement indica anche una figura retorica, cioè attenuare la realtà presentando un fatto riducendo la sua reale gravità per creare un effetto ironico. Ricordate : “Houston, abbiamo un problema?”

Eh, insomma: un po’ di ironia non ci salverà la vita, ma almeno ci terrà alla larga dal fanatismo, che è sempre dietro l’angolo.

Un abbraccio, sperando di poterlo fare presto di persona.

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